La posizione statunitense sulla PESD

Le relazioni transatlantiche all’interno dell’Alleanza NATO non sono mai state a vele spiegate, e i dibattiti sul burden-sharing sono rimasti una caratteristica quasi permanente delle relazioni post Guerra Fredda.  L’avvento nella prima metà del XX° secolo della PESD e i contemporanei alterchi tra i governi dell’Unione Europea e l’Amministrazione di George W. Bush sconvolsero l’Alleanza.  Tali dispute provennero da due trend interconnessi: il primo, era la ri-priorizzazione degli “interessi europei” nella grande strategia statunitense dopo la Guerra Fredda. Come si spostarono le placche tettoniche, così gli interessi statunitensi e la sua attenzione si allontanarono dall’Europa verso il Pacifico e il Golfo e conseguentemente, il posto dell’Europa nella politica estera e di sicurezza rimase in uno stato di incertezza, una situazione preoccupante per entrambi i partner.

Il secondo, e concorrente, quando l’Unione Europea emerse come attore internazionale, che stava attivamente raggiungendo maggiore “autonomia”, il futuro delle relazioni transatlantiche sembrò annebbiata. Entrambi i lati rivelarono elementi di schizofrenia come risultato di questa transizione duale. Gli Stati Uniti formalmente diedero il benvenuto al cambiamento dell’Unione verso una maggiore autonomia ma rimasero preoccupati dei potenziali cambiamenti dell’Unione verso la leadership statunitense1. Se si potesse descrivere con poche parole le posizioni dell’Amministrazione Clinton e quella di George W. Bush sul tema in questione, sarebbero un “Si, ma…”. Ciò era dovuto al fatto che nei primi mesi dopo la fine della Guerra Fredda, l’Amministrazione di George H.W. Bush rimase profondamente sospettoso delle intenzioni europee. Al critico summit a Roma, nell’ottobre 1991, quando gli Alleati si incontrarono per adottare un “Nuovo Concetto Strategico”, Bush aprì il vertice affrontando lealmente i suoi partner europei, affermando “if your ultimate aim is to provide for your own defence, then the time to tell usi s today!”. Nessuno sbatté le palpebre. Diversamente, il Presidente Clinton provò, in generale, a essere più a mente aperta su un nuovo contributo europeo. Nel 1990, e in particolare durante la saga dell’ESDI (Identità di Sicurezza e Difesa Europea), l’obiettivo sia degli Stati Uniti sia quello dell’Unione Europea era quello di trovare una formula che potesse trattenere l’impegno statunitense in Europa, rispettare la leadership statunitense e anche permettere agli europei maggiore autonomia.

Le “3 D” di Madeleine Albright articolarono la prima espressione ufficiale di condizionalità da parte dell’Amministrazione Clinton2. Ma quando i funzionari a Washington lessero attentamente le implicazioni del progetto PESD, essi gradualmente aggiunsero ulteriori condizioni alla lista, le quali continuarono a confondere ESDI con PESD. I segnali furono molto misti come l’affermazione inequivocabile del Vicesegretario di Stato Strobe Talbott: “We are not against; we are not ambivalent; we are not anxious; we are for it”.  Durante il 1999 e il 2000, nel tentativo di dissipare gli equivoci, i funzionari sia di Bruxelles sia di altre capitali europee andarono avanti e indietro l’Atlantico in un incredibile tentativo di successo per riassicurare l’Amministrazione Clinton che la PESD avrebbe potenziato e rafforzato l’Alleanza anziché indebolirla e minarla. Nel 1999, George Robertson, primo Segretario di Difesa britannico e a quel tempo Segretario Generale della NATO, contrappose la negatività delle “3 D” con le più positive “3 I”: improvement della capacità militare dell’Europa; inclusiveness per tutti gli alleati NATO; e indivisibility della sicurezza transatlantica. Due anni pieni di rassicurazioni furono necessari per distendere i nervi dell’Amministrazione Clinton3.

Tuttavia, fra quei funzionari impegnati nell’obiettivo di rassicurazione, c’era profondo scoraggiamento verso la fine degli anni 2000, quando divenne chiaro che il team in entrata di Bush avrebbe avuto meno simpatia per la PESD rispetto a quello di Clinton e che l’offensiva attrattiva europea sarebbe iniziata di nuovo dal graffio. Dal momento in cui gli Stati Uniti furono oberati in Iraq, le visioni negative predominanti negli USA della PESD diedero la precedenza a molte più espressioni di supporto. Nel frattempo, la PESD andò da un tavolo da disegno a una piattaforma di sviluppo e dimostrò il suo valore. Parallelamente, le relazioni transatlantiche, nonostante un tono ufficiale più positivo su entrambe le sponde dell’Atlantico, continuarono a peggiorare. Il risultato fu il commento statunitense sul futuro delle relazioni transatlantiche che tese a dividere in due campi principali: “disaggregatori”, quelli che continuarono a incoraggiare l’Amministrazione ad adottare una politica di divisione e di controllo in Europa, e i “rassicuratori”, coloro che presumibilmente vollero accordarsi con l’Europa basato sul supporto europeo per la politica statunitense in termini favorevoli all’Unione Europea. Essi avrebbero forniranno un importante contributo nelle discussioni nella politica di alto livello tra i leader di nuova generazione statunitense e un nuovo gruppo europeo4. Il processo di ridefinizione delle priorità strategiche statunitensi, che secondo alcuni accademici avrebbe preso avvio già a partire dalla metà degli anni Ottanta, è stato consacrato nella Strategic Guidance pubblicata nel 2012 dall’Amministrazione Obama: il Rebalance to Asia inaugurava un periodo caratterizzato da una minore assunzione di responsabilità da parte di Washington nelle questioni relative alla sicurezza del continente europeo. Le implicazioni per la NATO sarebbero state molteplici, come già anticipato dall’allora Segretario alla Difesa statunitense Robert Gates, nel giugno dell’anno precedente, quando si era rivolto a Bruxelles con parole dure nei confronti degli alleati europei, accusandoli di non impegnarsi abbastanza nel campo della difesa. La nuova dottrina Obama, nota con la formula leading from behind, sarebbe presto divenuta palese: negli anni successivi gli Stati Uniti si rifiutarono di inviare massicci contingenti militari in Libia, Siria, Iran, Mali, Repubblica Centroafricana e perfino in Ucraina.  L’invito a spendere di più, rivolto agli alleati, sarebbe stato implicitamente ribadito con la decisione dell’Amministrazione di ritirare quattro Brigade Combat Teams dell’US Army, circa 15.000 uomini, allora stanziati in Europa. Negli anni successivi ci sono stati altri eventi che hanno contribuito a promuovere, tra gli alleati europei, la percezione che fosse necessario fare di più nel campo della sicurezza, come l’annessione russa della Crimea, la Brexit e l’elezione di Trump5.

Ciò ha provocato una reazione dei membri dell’Unione, consistente nel perseguimento di quella che viene comunemente definita “autonomia strategica”. Essa può essere definita come la “capacità istituzionale di pianificare e condurre in maniera indipendente operazioni militari in tutto lo spettro dei conflitti (incluse le operazioni militari ad alta intensità) e di sviluppare e produrre autonomamente le relative capacità di difesa con la minima, se non totalmente nulla, assistenza da parte degli Stati Uniti6. Nonostante alcuni membri avessero già dato avvio al dibattito all’interno dei propri confini nazionali, la prima volta che se ne parlerà sarà nel 2010, in occasione del report annuale del Parlamento europeo sull’implementazione della Politica di Difesa e Sicurezza Comune (PSDC), poi rilanciato dalla Commissione nel 2013, prendendo piede il dibattito in Europa a partire dal 2016 con la pubblicazione dell’European Global Strategy7.

Il concetto delineato nell’EUGS riflette le contraddizioni interne dell’Unione, in seno alla quale coesistono diverse interpretazioni del concetto di autonomia strategica. Da un lato, quella francese, espressa a più riprese dal Presidente Macron nel corso del 2020, secondo la quale l’Unione dovrebbe sviluppare le capacità militari che le permetteranno di agire in maniera del tutto autonoma e indipendente dagli Stati Uniti e dalla NATO, in qualunque parte del globo. Dall’altra, quella italo-tedesca, espressa dal Presidente del Comando Militare UE, il Generale Claudio Graziano, secondo il quale l’autonomia strategica europea significherebbe “non tanto autonomia da qualcuno, ma autonomia di fare qualcosa, da soli o in cooperazione con qualcuno, come la NATO”. Una Difesa europea in piena sinergia con l’Alleanza Atlantica e quindi, non un’alternativa ad essa. Nonostante la divergenza di vedute all’interno dell’Unione, l’EUGS pubblicata nel 2016 ha comunque permesso di implementare alcune iniziative di rilievo che hanno consentito di fare un passo avanti, se non nella componente politica dell’autonomia strategica e in quella operativa, perlomeno in quella industriale, ossia per quanto riguarda la capacità di progettare e di produrre autonomamente i sistemi d’arma necessari per la condotta delle operazioni. Con la Cooperazione Strutturata Permanente e il Fondo Europeo per la Difesa, infatti, l’Unione ha messo in atto due importanti strumenti volti a favorire la cooperazione tra i Paesi membri nel campo dell’industria militare. Come sottolineato dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in occasione del discorso sullo stato dell’Unione nel settembre 2021, la componente politica dell’autonomia strategica è stata finora ostacolata dalla “cacofonia strategica” dei ventisette Paesi dell’Unione, i quali sono divisi, come si è visto, sulle priorità da assegnare alle minacce che incombono sull’Europa, oltre che sul tipo di relazione che intendono avere con la NATO.

Infatti, già a partire dal 2007, che l’Unione si è dotata di uno strumento militare che le consentirebbe di mettere in campo una risposta militare al sorgere di una crisi ai suoi confini. Tuttavia, poiché esse sono alimentate e guidate a rotazione da uno dei Paesi membri, benché disponibili, non sono mai state impiegate in un’operazione: il loro dispiegamento, infatti, è soggetto alla decisione unanime del Consiglio Europeo, unanimità che ad oggi non è mai stata trovata8.Come già accennato, durante il mandato di Trump il processo di cooperazione dell’Unione Europea nel campo della difesa ha subito un forte slancio, sebbene prese già avvio durante la Presidenza Obama. Trump ha scelto di perseguire una politica di abbandono dell’opzione del deep engagement in favore del retrenchment. Una scelta che si è tradotta nel ribilanciamento strategico degli Stati Uniti verso l’Asia Pacifico e nell’invito, rivolto da Trump ai suoi alleati, a profondere un maggiore impegno per mantenere in vita l’ordine liberale. Eppure, tale scelta era in realtà, che era già stata compiuta dal 44° Presidente, declinata poi da Trump con lo slogan America First, rappresenta più una conferma che una novità9. Un altro fenomeno che ha funto da sprone al processo di integrazione della Difesa europea è stata la sua politica di rinuncia al multilateralismo: egli ha perseguito una politica di contestazione nei confronti di alcune importanti organizzazioni internazionali, come la World Trade Organization e la International Criminal Court, arrivando al ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sul clima. In sintesi, nell’ottica trumpiana, l’Unione Europea ha rappresentato più un rivale che un alleato, oggetto di critiche soprattutto per la questione del burden-sharing. Tra tutti i Paesi accusati di “fare troppo poco”, la Germania è stata quella che ha subito le critiche più pesanti da parte di Trump, il quale è giunto a minacciare di ritirare gran parte dei militari americani di stanza nel Paese.

Infine, per quanto concerne il suo successore, ossia il Presidente Joe Biden, fin dalla sua campagna elettorale egli ha messo in chiaro che il rilancio delle relazioni con i partner e gli alleati degli Stati Uniti sarebbe stato al centro della sua politica estera, ribaltando difatti, l’approccio trumpiano10. Nel mese di maggio, sempre in ottica di contrasto alla Russia e di vicinanza agli Stati Uniti e alla NATO, l’Unione Europea ha accolto, su input di Berlino, la richiesta statunitense di entrare nel più importante programma della PESCO, quello sulla mobilità militare, aprendo definitivamente la partecipazione a uno dei principali strumenti di integrazione militare dell’Unione anche a Paesi terzi. Eppure, dai recenti accadimenti, sembra che la politica estera di Biden sembra avere linea di continuità con quella del suo predecessore.  Il ritiro dall’Afghanistan, obiettivo auspicato ma fallito sia da Obama che da Trump, ha confermato la volontà del Presidente, espressa alquanto chiara nel discorso tenuto a seguito del ritiro, di rinunciare a impegnarsi in teatri non vitali, per concentrare tutte le risorse sul contrasto alle due principali Potenze revisioniste, in particolare la Cina. Nel commentare i fatti accaduti, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Joseph Borrell, si è espresso con parole molto chiare a riguardo, dichiarando che “la necessità di avere una difesa comune non è mai stata così evidente; gli eventi in Afghanistan sono stati uno spartiacque”11.

Rita Granata per la Rivista Osservatorio Istituzionale-Centro Studi d’Europa, identificata dall’ISSN 2785-2695 e iscritta nel registro dei periodici con Decreto del Tribunale di Roma n.44 del 29 marzo 2022.

1) Jolyon Howorth, “Security and Defence Policy in the European Union”, Palgrave Macmillan, 2007,p. 136 ss.

2) Ibidem.

3) Ibidem.

4) Jolyon Howorth, ivi, p. 136 ss.

5) Matteo Mazziotti di Celso e Luca Sebastiani (a cura di), “La NATO e l’Unione Europea”, Edizioni Nuova Cultura, 2022, p.75 ss.

6) Ibidem.

7) Ibidem.

8) Ivi

9) Matteo Mazziotti Di Celso, “Gli Stati Uniti e la corsa dell’Unione Europea verso l’autonomia strategica”, aprile 2022, geopolitica.info.

10) Ibidem.

11) Matteo Mazziotti Di Celso, ivi.