La settimana corta come punto di equilibrio tra vita professionale e vita privata

Attualmente sembra essere in atto una rivoluzione dei tradizionali modelli di lavoro: ci si allontana dai rigidi schemi predeterminati per accedere a forme di lavoro sempre più flessibili e dinamiche che consentano al lavoratore di autogestire il proprio lavoro. Si cerca di eliminare dall’immaginario comune la figura del dipendente chiuso in ufficio dalle 9 alle 18, costretto a comunicare all’azienda qualsiasi spostamento o cambiamento del proprio programma.
Anche il legislatore è intervenuto in tal senso durante l’emergenza pandemica al fine di semplificare l’utilizzo del “lavoro agile” o chiamato anche “smart working”: ciò ha indotto molti datori di lavoro ad una profonda riorganizzazione dell’assetto societario, orientandola verso una prestazione di lavoro resa per lo più da casa.1

La comparazione tra normativa legale e contrattuale sull’orario di lavoro e livelli di produttività porta ormai a ritenere che non sia l’allungamento strutturale del tempo di lavoro a incrementare la produttività, ma la flessibilità dello stesso: i sistemi più performanti non sembrano avere orari più lunghi ma più flessibili.2 In questa prospettiva, una misura che le aziende stanno adottando è la riduzione della settimana lavorativa: dal lunedì al giovedì.
Il “tempo” di lavoro ha, infatti, ricoperto storicamente un ruolo primario sia con riferimento alle esigenze individuali dei dipendenti sia agli stili di vita adottati dalla società3. Sul piano individuale e giuridico, il fattore tempo ha rappresentato, e per tanti versi rappresenta ancora, la modalità principale di misurazione quantitativa della prestazione di lavoro subordinato, delineando i contorni dell’oggetto del contratto di lavoro. Esso infatti, determina la prestazione lavorativa del dipendente, il pagamento della retribuzione e l’assoggettamento del lavoratore ai poteri del datore di lavoro: in sostanza, individua il grado di intensità della subordinazione. Ad oggi, il fattore tempo non può essere più considerato il discrimen tra lavoro subordinato e lavoro autonomo in quanto si assiste sempre più spesso ad un’ibridazione delle varie forme di lavoro.4
Un esempio di ciò è proprio la riduzione della settimana lavorativa, già sperimentata in altri Paesi europei e non. I risultati delle aziende inglesi che hanno adottato tale misura hanno evidenziato l’assenza di cali di fatturato ed il miglioramento del benessere dei lavoratori. La settimana corta ha spinto i lavoratori a cercare delle soluzioni più efficienti e meno dispendiose in termini di tempo per portare a termine le attività quotidiane. Per ottenere ciò, sono stati adottati diversi correttivi a quelli che potremmo definire i metodi “ordinari”: sono state previste riunioni più brevi con ordini del giorno più chiari, l’utilizzo di “periodi di concentrazione” senza interruzioni e fondamentale è risultata la stesura di liste di attività da fare il giorno dopo preparate con anticipo.
A ben vedere, nel 1908 tale misura fu adottata per la prima volta da una fabbrica americana per permettere ai lavoratori ebrei di osservare il sabato sabbatico, così come i cristiani osservavano la domenica di riposo. Dopo un secolo, il dibattito è tornato attuale ma per motivi diversi da quelli religiosi.

In Italia, di recente, la Banca Intesa Sanpaolo ha dichiarato di voler adottare il modello della settimana corta, in quanto i dirigenti hanno compreso grazie alla pandemia che le forme ibride di lavoro aumentano la produttività e la soddisfazione dei lavoratori. All’origine, l’intenzione era quella di adottare un modello unico per tutti, tuttavia non è stato possibile raggiungere un accordo con la contrattazione collettiva per cui sembra che la banca procederà a stipulare degli accordi individuali con i singoli lavoratori. La possibilità che viene data ai lavoratori è di scegliere, su base volontaria e a parità di retribuzione, se lavorare cinque giorni a settimana oppure quattro giorni da nove ore lavorative, compatibilmente con le esigenze tecniche-organizzative e produttive dell’istituto di credito. Oltre a ciò, Intesa Sanpaolo offrirà ai propri dipendenti la possibilità di lavorare da casa fino a un massimo di 120 giorni all’anno, senza limiti mensili. Tutte le misure sono volte a migliorare la competitività dell’azienda ed a conciliare quanto più possibile le esigenze dei lavoratori con quelle dell’azienda che in tal modo si inserisce in un circuito di transizione verso il digitale.

Tuttavia, l’accordo collettivo resta l’opzione auspicabile. Ha infatti il pregio di individuare consensualmente la platea dei lavoratori interessati alla rimodulazione dell’orario, di determinare le migliori modalità e tempistiche per implementare la misura, utili a contemperare al meglio le esigenze aziendali con quelle dei lavoratori, e, con l’occasione, di definire obiettivi e criteri di valutazione qualitativa della prestazione, idonei a garantire livelli di produttività pari o superiori a quelli connessi all’orario di lavoro tradizionale.5

Anche in Belgio il governo ha proposto la cosiddetta settimana lavorativa corta anche se al momento, l’iniziativa è oggetto di consultazioni con le parti sociali con l’obiettivo di garantire maggiore flessibilità alle persone in situazioni di co-genitorialità, ossia di genitori con figli che vivono separati. Tutto ciò a determinate condizioni: dovrebbe esserci una richiesta del lavoratore a fronte di un accordo a livello aziendale e secondo le linee-guida presentate dal governo belga, l’impresa potrebbe rifiutare la richiesta, ma motivando la scelta per iscritto. La situazione è al momento critica in quanto l’associazione imprenditoriale belga FEB ha dichiarato di temere che poche aziende saranno disposte a concedere questa nuova flessibilità ai lavoratori a causa degli obblighi aggiuntivi che comporta.6

Occorre evidenziare anche quelli che potrebbero essere i risvolti negativi. Sebbene sulla carta il progetto di ridurre la settimana lavorativa da cinque a quattro giorni sia accattivante, bisogna chiedersi se realmente sia produttivo. È difficile che si possa mantenere la produttività semplicemente accorciando la settimana e ciò per ragioni ben precise.

Ogni lavoratore ha sperimentato e sperimenta giornate totalmente improduttive, causate da fattori eterogenei e variabili da individuo a individuo: basti pensare a quanto possa influire l’età, lo stato d’animo ed il carico di lavoro. Uno dei fattori più critici ed influenti sulla produttività è oggigiorno il burn out: la sindrome psicologica da stress lavorativo caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e riduzione della percezione dell’efficacia personale. Premesso ciò, tali componenti devo essere sempre considerate, non solo il venerdì e pertanto si è perplessi circa la possibilità di risolvere tali problematiche con la riduzione della settimana lavorativa. D’altronde, resta da considerare che le aziende non hanno sempre lo stesso carico di lavoro e non tutte possono permettersi di chiudere il giovedì sera.

Riducendo la settimana per tutti non si può fisiologicamente garantire che la produttività per le aziende rimanga la stessa. Piuttosto, sarebbe preferibile fare in modo che ci fossero degli “obiettivi ben precisi” e che le persone possano svolgere il proprio lavoro in assoluta libertà di orari, con estrema flessibilità e con la sola condizione di garantire i risultati. A quel punto le persone sarebbero libere di organizzare il lavoro e spalmare le diverse ore in base alle proprie necessità e rendendo il lavoro fluido e compatibile con le aspettative dell’azienda. Si parla di “personalizzazione” dell’orario di lavoro come misura idonea a conciliare gli interessi delle parti al fine di trovare un giusto punto di equilibrio tra salute mentale e produttività sul lavoro.

Il punto è che una persona non produce di più se si riduce la settimana: produce di più se ha un compito ben definito, si assume la responsabilità di quello che fa ed è libero da costrizioni che non sono direttamente correlabili a ciò che bisogna effettivamente “produrre”. Da tutto ciò si comprende la necessità di coinvolgere il lavoratore e le sue rappresentanze nella gestione delle nuove modalità lavorative in quanto l’obiettivo delle relazioni di lavoro e della stessa contrattazione collettiva non può essere appena quello di allungare il weekend lasciando immutata l’organizzazione del lavoro, degli obiettivi e dei carichi di ciascuno. È questo l’errore che è stato registrato in numerosi casi, rispetto allo smart working, che non è semplicemente la collocazione del lavoro fuori dall’ufficio. Ed è questo il rischio presente nella settimana corta se intesa non come una vera evoluzione dei modi di lavorare e produrre, centrati maggiormente su relazioni di lavoro fiduciarie e per obiettivi, quanto come benefit da offrire ad alcuni gruppi di lavoratori.7

L’autrice Angela Chianese garantisce l’autenticità del contributo, fatti salvi i riferimenti agli scritti redatti da terzi. Gli stessi sono riportati nei limiti di quanto consentito dalla legge sul diritto d’autore e vengono elencati di seguito. Ai sensi della normativa ISO 3297:2017, la pubblicazione si identifica con l’International Standard Serial Number 2785-2695 assegnato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche.

1)Proietti Marco, La Flessibilità del Lavoro – Lavoro agile, nuovi profili professionali e settimana corta, Norme&Tributi Plus Diritto, 20 gennaio 2023.

2)Del Conte Maurizio, Sonnati Silvio, La flessibilità dell’orario di lavoro: una nuova convergenza di interessi, Guida al lavoro, volume n.43, 2022, pag. 7-13.

3)Tursi Armando, Le metamorfosi del tempo di lavoro, in Diritto delle relazioni industriali, volume n.4, 2022, p. 464.

4)Zambelli Angelo, Brambilla Andrea, La progressione continua verso la flessibilità degli orari di lavoro, Guida al lavoro, volume n.43, 2022, pag. 14-21.

5)Martella Boris, Settimana corta in azienda: intese individuali o collettive, Norme e tributi, p.21, 16 gennaio 2023.

6)Romano Beda, Il Governo belga propone la settimana di quattro giorni – Scettiche le parti sociali, Il Sole 24 ore, Economia e politica internazionale, 2023, pag.15.

7)Tiraboschi Michele, Verso la settimana corta?, Contratti & Contrattazione Collettiva, volume n.1, 2023, p. 4-5.