L’emergenza climatica nel Sahel e le conseguenze per l’Europa

Parti dell’Africa orientale, del Sahel e dell’Africa Meridionale, in pratica la cosiddetta Africa Subsahariana, rappresentano le regioni al mondo più colpite dal cambiamento climatico. Le attuali analisi vedono l’emergenza climatica come un moltiplicatore delle minacce, e percepiscono la povertà e la bassa capacità dello stato come i fattori più influenti per i conflitti nella zona. Tutta l’Africa subsahariana vive effetti metereologici estremi. Le temperature, aumentate di mezzo grado nell’ultimo secolo, si prevede aumenteranno molto più rapidamente che in altre regioni del globo. Questo avrà tre conseguenze principali: in primis, le siccità sono diventate più frequenti e intense e gli analisti si aspettano che peggiorino, specialmente nell’Africa centrale e meridionale; in secondo luogo, le precipitazioni diventeranno sempre più imprevedibili e porteranno a inondazioni su terreni sempre più aridi; infine, la desertificazione ridurrà la resa dei raccolti che avrà impatto anche sul bestiame, fonte di dipendenza per molte delle comunità africane.

Tuttavia, nonostante i rapporti dei media ci lascino intendere che sussista un nesso tra cambiamento climatico e aumento della conflittualità, specie per il possesso delle risorse primarie, la relazione è in realtà più complessa e controversa. Molti studiosi, in realtà, evidenziano come gli effetti del clima siano sempre condizionati da ulteriori fattori politici, economici e sociali. Le politiche statali, sono uno, se non il più importante fattore che incide sul rischio che il cambiamento climatico pone, modellando per esempio gli effetti della migrazione ambientale. Vi sono paesi dell’Africa, dove politiche sbagliate sono state devastanti. In Nigeria, il degrado della terra indotto dal clima e la crescente violenza nel nord del paese, hanno spinto i pastori a sud, dove si scontrano costantemente con gli agricoltori. L’invasione dei terreni agricoli blocca le tradizionali rotte migratorie, mentre gli agricoltori soffrono per i danni che il bestiame infligge ai loro raccolti. Nello stato nigeriano del Benue, una legge contro il pascolo ha esacerbato le tensioni già elevate tra agricoltori e allevatori permettendo di pascolare soltanto nei ranch già stabiliti, mettendo così fuori legge il tradizionale pastoralismo dei Fulani. Ciò ha provocato violenti attacchi da parte dei Fulani che non solo hanno portato all’uccisione di decine di persone all’interno dello stato del Benue, ma anche degli stati vicini.

Dal modo con cui vengono condotte, quindi, le politiche statali possono o rafforzare i processi sociali che aiutano a migliorare l’influenza dei cambiamenti climatici sui conflitti violenti, oppure, al contrario, divenire divisive e quindi concreti fattori di rischio.1 I rischi legati al clima sono una preoccupazione significativa per le popolazioni saheliane a causa dei loro impatti socioeconomici e ambientali avversi. Nel Sahel, l’80% della popolazione dipende dalle risorse naturali per il proprio sostentamento e quindi le risorse giocano un ruolo importante per il mantenimento della pace. L’agricoltura in questa regione dipende quasi interamente da tre o quattro mesi di piogge estive, tranne che nelle rive dei fiumi o dei grandi laghi, dove si svolgono alcune attività di irrigazione. Mentre gli scenari per il cambiamento climatico del Sahel differiscono e sono ambigui in alcuni modelli, la maggior parte delle previsioni concorda che ci saranno condizioni progressivamente più secche con precipitazioni sempre più inconsistenti. Essendo stato chiamato il “più caldo dei punti caldi”, il Sahel è vittima non solo del cambiamento del clima, ma in particolare delle fragili condizioni della zona. In risposta agli effetti storici del clima, nove stati saheliani (Burkina Faso, Capo Verde, Ciad, Gambia, Guinea-Bissau, Mali, Mauritania, Niger e Senegal) hanno formato nel 1973 il Comitato Permanente Interstatale (CILSS), un’organizzazione che investe nella ricerca per la sicurezza alimentare e la lotta contro le conseguenze della siccità.2

Recentemente il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), ha condotto uno studio intitolato “Livelihood Security: Climate Change, Migration and Conflict in the Sahel” che aveva due obbiettivi: analizzare le tendenze storiche del clima nella regione e identificare le potenziali implicazioni per i mezzi di sussistenza che dipendono dalle risorse naturali; fornire raccomandazioni per migliorare la sensibilità ai conflitti e alle migrazioni nella pianificazione dell’adattamento, negli investimenti e nelle politiche in tutta la regione. Ci sono infatti tre percorsi per capire come il cambiamento climatico può influenzare la sicurezza nel Sahel. Questi sono l’aumento della vulnerabilità, il rallentamento dello sviluppo e la sicurezza. Gli impatti tipici del cambiamento climatico, come siccità, inondazioni o aridità, possono aggravare le vulnerabilità già esistenti (come i fattori economici, politici e sociali), portando a: una maggiore insicurezza alimentare, problemi di salute e cambiamenti nella disponibilità delle risorse naturali. Questi fattori possono poi sfociare nella competizione per le risorse, conflitti a livello locale, migrazioni e una più ampia destabilizzazione politica. Il rapporto guidato dall’UNEP ha concluso che si stanno verificando cambiamenti significativi nel clima regionale, con un impatto sui mezzi di sussistenza e sicurezza alimentare. I cambiamenti del clima regionale stanno avendo un impatto su questioni legate alla disponibilità di risorse naturali essenziali per il sostentamento della regione come l’insicurezza alimentare. Insieme a importanti fattori sociali, economici e politici, questo può portare alla migrazione, al conflitto o a una combinazione dei due. Vi è da rilevare che la migrazione e il movimento di persone e bestiame sono sempre stati parte integrante delle strategie di sussistenza definibili ancestrali nella regione. La migrazione, tuttavia, avviene anche come risultato del fatto che i mezzi di sussistenza tradizionali e non tradizionali non sono più praticabili, a causa dei cambiamenti dell’ambiente.

Non è da trascurare, inoltre, il fatto che alcune persone o gruppi sono troppo poveri o incapaci di spostarsi. In questa regione già afflitta da pervasivi conflitti locali, il cambiamento climatico e l’aumento della competizione per le scarse risorse naturali si aggiungono a una situazione già difficile. Quindi, gli impatti del cambiamento delle condizioni climatiche sulla disponibilità e la distribuzione delle risorse naturali, insieme a fattori come la crescita della popolazione, la debolezza della governance e le sfide legate ai diritti fondiari, hanno portato a una maggiore competizione per le scarse risorse naturali, in particolare la terra fertile e l’acqua, e hanno portato a tensioni e conflitti tra le comunità e i gruppi di sussistenza.4 Il cambiamento climatico è diventato un fenomeno con implicazioni potenzialmente profonde per la sicurezza e la stabilità regionale, sia ora che in futuro. Nel contesto di analisi delle politiche di sicurezza ambientali nel Sahel, in cui vi è stato con diverso grado di impegno e responsabilità, la confluenza di tre attori, politici, militari e Organizzazioni Non Governative, debbono rilevarsi una serie di politiche rivelatesi fallimentari. In primo luogo, quella che viene attribuita alla ascesa e caduta del Servizio Forestale. L’aumento delle temperature e la desertificazione nel Sahel sono stati spesso considerati strettamente legati a modelli insostenibili di deforestazione e disboscamento. Questi, a loro volta, sono tipicamente visti come una funzione, una necessità, della crescita della popolazione del Sahel in quanto legata alla relativa domanda di legno per soddisfare le crescenti esigenze primarie di cibo, abitazioni e agricoltura.

La riattivazione di progetti tardo-coloniali, richiesta soprattutto da donatori internazionali, per fermare l’avanzata verso sud del Sahara attraverso programmi intensivi di riforestazione ai margini del deserto, ha di fatto ripreso slancio negli anni Dieci. Tali progetti, pur accolti positivamente dai governi saheliani, hanno di fatto spinto per una protezione dell’ambiente e delle sue risorse naturali, privilegiando le misure di applicazione rapida della legge piuttosto che la sostenibilità a lungo termine. A tal fine, negli ultimi decenni i paesi saheliani hanno notevolmente potenziato i rispettivi servizi forestali (Eaux et Forêts) e il corpo dei ranger. Nella realtà si è trattato di rivitalizzare il ruolo di “agenzie paramilitari” ereditate dal dominio coloniale e incaricate di far rispettare la conservazione delle risorse naturali. Ciò ha portato all’adozione di pratiche coercitive imposte dalle élite politiche contro i soggetti rurali “indisciplinati”, aumentando la severità delle pene, gonfiando le multe e autorizzando approcci pesanti per inibire il disboscamento informale. Vivendo alla frontiera tra la savana e il deserto, dove si concentrano gli sforzi anti-desertificazione, alcune comunità Fulani, e specialmente i senza terra pastori seminomadi, si sono sentiti particolarmente colpiti da queste politiche, lamentando multe eccessive per la raccolta di legna da ardere, una tassazione “illegale” simile a pratiche esecutive e atti deliberati di umiliazione che mostrano disprezzo per i valori locali e le norme sociali. Gli agenti del servizio forestale in tutto il Sahel sono spesso stati accusati di essere impegnati nella ricerca di rendita e nell’estorsione, sfruttando le comunità rurali emarginate attraverso malversazioni, molestie, saccheggi e abusi, attuato con un sistema consolidato di reti clientelari ha alimentato la percezione diffusa di una quasi totale impunità per i servizi forestali dei paesi saheliani, che sono visti operare in tacita collaborazione con le élite politiche nazionali e i leader locali.

I leader jihadisti hanno attinto a piene mani da questo profondo senso di frustrazione e di impotenza, sulla quale hanno costruito la loro reputazione e guadagnato un certo grado di accettazione locale impegnandosi in una retorica che fa leva sul cattivo governo e sulle pratiche corrotte dei paesi saheliani rispetto alla gestione delle risorse naturali. In questa narrazione, l’esperienza quotidiana degli abusi presumibilmente subiti dalle comunità emarginate è presentata come la prova di una cospirazione transnazionale che unisce i governi saheliani, i leader consuetudinari corrotti che agiscono come loro burattini informali, i loro sostenitori internazionali (e le menti) in Occidente, così come gli abusivi apparati di sicurezza dello Stato, di cui il Servizio Forestale è uno dei primi in linea. Per tale motivo gli agenti del Servizio Forestale sono stati spesso i primi obiettivi degli attacchi terroristici sia nel Mali centrale che nel Burkina Faso settentrionale. Nella pratica attuazione, quindi, l’applicazione dura e incontrollata di misure originariamente intese a combattere la deforestazione e la desertificazione può aver contribuito ad alimentare la violenza terroristica nel Sahel, piuttosto che evitarla.

Un’altra area politica che mostra aspirazioni sbagliate sui legami tra ambiente e sicurezza è quella delle politiche alimentari. La fragilità ambientale dei paesi saheliani li rende soggetti a crisi alimentari. Fin dai tempi coloniali (e forse anche prima), i responsabili politici hanno quindi ripetutamente cercato di rafforzare la sicurezza alimentare aumentando la produzione interna. Anche a livello internazionale si è sempre data priorità all’adeguamento dell’agricoltura saheliana per prevenire ulteriori crisi alimentari, con programmi generosi presentati con il linguaggio della modernizzazione e dell’efficienza. Nel complesso, queste politiche hanno avuto successo nei confronti di loro obiettivi dichiarati come le statistiche della FAO28 evidenziano con la diminuzione dei tassi prevalenti di malnutrizione e denutrizione, aumentando, al contempo, la sicurezza alimentare. Anche la superficie di terra arabile disponibile per le coltivazioni è aumentata drasticamente nei paesi saheliani, specialmente negli ultimi decenni. Il problema, quindi, non sembra risiedere nella scarsità di cibo (che è notevolmente diminuita), ma nella sua produzione. Nel corso degli anni, le politiche alimentari saheliane hanno dedicato una quota molto maggiore di attenzione – e di fonti – all’agricoltura piuttosto che all’allevamento, non solo per la maggiore produzione alimentare percepita dalla prima, ma anche, e soprattutto, per il suo allineamento con gli interessi ideologici ed economici delle élite al potere nelle capitali saheliane. La coltivazione di terre precedentemente destinate al pascolo, comprese le terre marginali e le vie della transumanza, è quindi il risultato di scelte politiche deliberate, e non di semplici adeguamenti alla pressione demografica. Poiché l’espansione delle terre coltivabili e della produzione di cereali in tutta la regione è stata realizzata in gran parte a scapito della pastorizia, coloro che fanno affidamento su questa attività sono diventati sempre più frustrati. L’aumento dei conflitti relativi all’assegnazione e all’uso della terra, combinato con la decrescente fiducia nei meccanismi giudiziari e tradizionali di risoluzione delle controversie, ha alimentato una forte domanda di protezione da parte degli allevatori. I gruppi jihadisti sono stati particolarmente abili nello sfruttare gli scontri intercomunitari e intracomunitari che ne sono derivati, articolando la dinamica nella cornice di una lotta tra gli emarginati.5

In effetti negli ultimi venti anni la striscia saheliana a sud del Sahara sta diventando più verde, dove è evidente una crescente copertura arborea. L’argomento che collega il conflitto e il terrorismo alla competizione per le risorse, quindi, può mantenere un certo valore solo se riferito non tanto alla disponibilità di cibo in sé, ma ai fattori della produzione alimentare e al loro governo, primo fra tutti la terra. I governi saheliani possono trovare conveniente collegare terrorismo e cambiamento climatico perché strumentale all’ottenimento di aiuti finanziari internazionali. Bisogna però tenere presente che i progetti di sviluppo non si limitano a generare ricchezza, ma contribuiscono anche a modificare profondamente le condizioni locali di accesso alle risorse in un ambiente già altamente competitivo. Partendo dal presupposto della scarsità delle risorse, le politiche di sviluppo (o di sicurezza-sviluppo) che trascurano questo aspetto e mirano solo ad aumentare la produzione agricola, corrono il rischio di aggravare il problema che intendono affrontare.

La trasformazione del territorio mal regolata e la caccia indiscriminata, spesso spinta dalla pressione demografica, hanno provocato un drastico declino della biodiversità nel Sahel. Le deduzioni statistiche suggeriscono che la perdita di biodiversità in Africa è strettamente associata all’escalation della violenza armata il che spinge a raccomandare di ostacolare entrambi i fenomeni rafforzando le misure di conservazione e la protezione della fauna selvatica attraverso santuari naturali. Sebbene questo sia di per sé un obiettivo lodevole, un’analisi approfondita suggerisce che, in assenza di schemi di governance appropriati, l’istituzione di parchi e riserve naturali può anche portare a un’escalation del conflitto, piuttosto che alla sua placazione, e contribuire a creare un terreno fertile per i gruppi terroristici. In particolare, quando si è provato a stabilire aree protette, legate anche all’obiettivo di attirare un tipo di turismo ecologista internazionale, senza il dovuto riguardo per i mezzi di sussistenza degli abitanti locali e mediante i sistemi coercitivi ed autoritari, ed in molti casi brutali e abusivi, dei Servizi Forestali nazionali. Anche in questo caso si è alimentato un crescente senso di frustrazione tra alcune comunità rurali, che si sono sentite espropriate e discriminate.

Le organizzazioni jihadiste hanno sfruttato, a loro favore, le tensioni che si sono create, combinando discorsi sociali e religiosi per presentarsi come fornitori di protezione e giustizia contro i presunti abusi delle autorità statali. Prendendo di mira le forze di sicurezza e i servizi forestali, in primo luogo, hanno fatto in modo che le comunità locali espropriate avessero un accesso incondizionato alle risorse naturali. Di conseguenza l’accettazione locale dei gruppi jihadisti sarebbe aumentata, insieme al bracconaggio e al contrabbando di fauna selvatica, di nuovo mettendo in evidenza l’errore di una dinamica che concepisca metodi autoritari. I leader politici e la comunità internazionale stanno sempre più riconoscendo che le questioni legate al clima devono essere elementi sempre più considerati nell’elaborazioni di politiche di sviluppo, nelle considerazioni umanitarie e nei conflitti. Nel portare avanti una risposta che migliora la sicurezza globale e la cooperazione sulla sfida del clima, è opportuno gestire meglio i rischi di numerose altre sfide e, così facendo, diminuire le tensioni tra le nazioni e porre le basi e le possibilità di una pace equa e sostenibile nel tempo.

L’autore Matteo Mauro garantisce l’autenticità del contributo, fatti salvi i riferimenti agli scritti redatti da terzi. Gli stessi sono riportati nei limiti di quanto consentito dalla legge sul diritto d’autore e vengono elencati di seguito. Ai sensi della normativa ISO 3297:2017, la pubblicazione si identifica con l’International Standard Serial Number 2785-2695 assegnato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche.

1) von Soest Christian, A heated debate: Climate change and conflict in Africa,German Institute of Global and Area Studies (GIGA), 2020.

2) Vigil Sara, Climate Change and Migration: Trends,Destination and Returns, ISPI.it, 2017.

3) Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), 2011.

4)  Tobi Petrocelli, Samantha Newport E Dennis Hamro-Drotz, Climate change and peace-building in the Sahel, A Journal of Social Justice, 2021, p.546-551.

5) Ranieri Luca, CLIMATE CONFLICTS IN THE SAHEL? When (fighting) climate change fuels terrorism, in EIUSS.com, 2020.

6) Vigil Sara, op.cit.